martedì 28 giugno 2011

Ipse dixit: Salviamo i privilegi, tanto la gente ci detesta.

Rotondi dice no ai tagli dei privilegi “La gente ci detesta, difendiamo la Casta” | Redazione Il Fatto Quotidiano | Il Fatto Quotidiano
“Dobbiamo coccolare i parlamentari; se un giorno gli si dice che vanno dimezzati, il giorno dopo che gli si taglia lo stipendio, quello successivo l’auto blu, significa voler proprio far cadere il governo”. Il ministro Gianfranco Rotondi è contrario ai tagli dei privilegi a deputati e senatori. Anzi. I privilegi, dice, vanno tutelati. “Tanto, più impopolari di così”.

Pagate 1,40 euro all'ora, le schiave di via Padova si ribellano. Tre denunce - Milano

Pagate 1,40 euro all'ora, le schiave di via Padova si ribellano. Tre denunce - Milano

lunedì 27 giugno 2011

venerdì 10 giugno 2011

Quella centrale nucleare sui colli di Bologna - Bologna - Repubblica.it


La centrale nucleare di Montecuccolino
Inserito originariamente da Il Fatto Quotidiano


Quella centrale nucleare sui colli di Bologna - Bologna - Repubblica.it: "Mai una manifestazione, mai una protesta. I giorni più duri? Quelli dell'aprile '86, il dopo Chernobil. La gente era spaventatissima per le radiazioni e portava qui di tutto per vedere se c'era stata contaminazione. Piante. Frutta. Persino galline'."

Come funziona il cervello in politica - Italians - Corriere della Sera

Come funziona il cervello in politica - Italians - Corriere della Sera
Caro Beppe,
una delle poche certezze sui processi cognitivi indica che usiamo le aree razionali del cervello quando dobbiamo affrontare una contraddizione, al fine di riflettere. Ma alcuni ricercatori della Emory University di Atlanta, poco prima delle presidenziali Usa del 2008, hanno condotto il seguente esperimento.
Tramite risonanza magnetica hanno scannerizzato il cervello di quindici sostenitori democratici e quindici repubblicani, alle prese con la lettura delle dichiarazioni programmatiche dei due leader degli opposti schieramenti. Dall’esperimento è emerso che quando si esamina il pensiero del leader del proprio partito, il processo di valutazione è del tutto emotivo e inconscio, e quando si riesce a giustificare il candidato si attivano le aree del piacere, allo stesso modo di quando si assume una droga. Quando veniva letta la parte del documento in cui il proprio leader cadeva in contraddizione, aumentava l’attività dell’area del cervello deputata alla regolazione delle emozioni negative e al perdono, mentre restava sopita la parte della corteccia dedita ai ragionamenti razionali.
Per i fedelissimi il pensiero politico assume un carattere prevalentemente emotivo: anche l’esito delle recenti elezioni è frutto di una totale irrazionalità.
Mauro Luglio, mauromati@tiscali.it

Il vero �nodo� dei referendum sull'acqua - Italians - Corriere della Sera

Il vero �nodo� dei referendum sull'acqua - Italians - Corriere della Sera
Il punto nodale mi sembra questo: i privati che investono hanno un rendimento assicurato; in pratica, il «rischio d'impresa» è nullo. Ma se non ci sono né rischio né concorrenza (una volta ottenuta, la concessione garantisce, di fatto, un monopolio), a cosa serve far entrare i privati? Inoltre, la remunerazione del 7% è assicurata in qualsiasi modo il capitale sia stato investito; non vi è alcuna garanzia che gli investimenti servano davvero a ottimizzare il servizio. Di nuovo, qual è il beneficio per gli utenti?

martedì 7 giugno 2011

Lavoce.info - ARTICOLI - QUELLE REGIONI ANCORA PI� SPECIALI

Lavoce.info - ARTICOLI - QUELLE REGIONI ANCORA PI� SPECIALI

È legittimo astenersi e invitare a disertare le urne? - Andrea Morrone*

*Articolo di Andrea Morrone, professore straordinario di diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna, pubblicato su il Riformista lunedì 23 maggio 2005 .

Perché è importante discutere ancora di astensione? Perché l’appello all’astensione dal voto rappresenta la scorciatoia per affossare una richiesta di referendum popolare. Utilizzando l’astensionismo fisiologico (non vota normalmente il 25-30%), è oggi sufficiente convincere a non votare una minoranza di cittadini (pari al 20-25% circa dell’elettorato) per boicottare qualsiasi referendum. Di fronte all’astensione, in altri termini, qualsiasi richiesta di referendum abrogativo nasce morta. Basta guardare alla storia repubblicana.

Un po’ di storia. Nonostante le polemiche dell’ultima ora, la propaganda a favore della diserzione dalle urne e l’assenteismo dal voto hanno affiancato la storia dei referendum abrogativi fin dalle origini. La prima volta risale al 1972, quando Pietro Scoppola e altri intellettuali cattolici proposero agli elettori di ricorrere all’astensione come alternativa democratica per respingere il referendum sul divorzio, ritenuto un’iniziativa “inequivocabilmente confessionale”. Questa via d’uscita venne poi suggerita da Marco Pannella, il leader referendario per eccellenza, a Bettino Craxi il 9 aprile 1985 per scongiurare il referendum comunista sulla scala mobile: l’invito a disertare le urne, accolto inizialmente da Pierre Carniti e dallo stesso Craxi, fu poi abbandonato da quest’ultimo (lo convinsero De Mita, Spadolini, Zanone e Longo), dato che il Presidente del consiglio decise di trasformare il referendum in un voto di fiducia sulla politica del governo (poco prima del voto, non tutti lo ricordano, anche Pannella e i radicali decisero di recarsi alle urne per votare NO).

E’, però, con i referendum su caccia e pesticidi del 1990 che l'invito a disertare le urne (in taluni seggi trasformato in vere e proprie pressioni fisiche) raggiunse per la prima volta il segno. A invalidare la consultazione popolare si ritrovano insolitamente uniti agricoltori, cacciatori, produttori di pesticidi, fabbricanti di doppiette.

Una sola volta l’appello all'astensione è stato sconfitto. Chi non ricorda l’invito ad andare al mare fatto da Craxi e più apertamente da Bossi in occasione del quesito sulla preferenza unica del 1991. Il 9 giugno 1991 gli italiani andarono a votare, nonostante il fuoco incrociato contro il referendum elettorale (“incostituzionale” lo definì Giuliano Amato, inutilmente “costoso” lo ritenne il Presidente del consiglio Andreotti, mentre il Presidente della Repubblica Cossiga, per sostenerne la legittimità, attribuì all’astensione il valore di un “NO rafforzato”, anche se poi si recò a votare, ma solo all’ultimo momento): 29 milioni furono i votanti, e 27 milioni i voti favorevoli alla preferenza unica. Quella importante vittoria democratica spianò così la strada ai referendum elettorali del 1993 e, dopo il varo delle nuove leggi elettorali maggioritarie, ai primi governi dell’alternanza.

Dopo quell’unico precedente sotto la spada di Damocle dell'astensione caddero, senza soluzione di continuità, tutti i referendum successivi: i sette quesiti del 1997 su golden share, obiezione di coscienza, caccia, carriera dei magistrati, incarichi extragiudiziari, ordine dei giornalisti, ministero per le politiche agricole (votò il 30.2%), il referendum per il maggioritario del 1999 (49,6%), i sette referendum del 2000 su sistema elettorale maggioritario, finanziamento pubblico della politica, elezione del CSM, separazione delle carriere dei magistrati, incarichi extragiudiziari, trattenute sindacali, liberalizzazione dei licenziamenti (32,2%), i tre quesiti del 2003, due sull’art. 18 dello statuto dei lavoratori e uno sulla servitù di elettrodotto (25,7%). In tutti i casi l’invito a disertare le urne è stato sostenuto, sia pure in maniera differenziata nelle varie circostanze, praticamente da quasi tutti i principali protagonisti della politica italiana (tra cui alcuni di coloro che adesso sostengono di voler votare...). Anche oggi, del resto, la propaganda astensionistica minaccia la validità dei quattro quesiti sulla procreazione medicalmente assistita.

La domanda è sempre la stessa però: è legittimo invitare a disertare le urne? E’ legittimo astenersi dal voto? Sulla questione sono intervenuti, come sempre, voci diverse: politici, sacerdoti, cittadini comuni, giuristi. Un vivace dibattito è in corso tra i costituzionalisti. Michele Ainis ha ritenuto l’astensione “una frode della Costituzione” (La stampa 12/5/05); Antonio Baldassarre ha invitato a leggere la Costituzione quando parla di libertà di espressione e di libertà di voto per ritenere pienamente legittima sia la propaganda per la diserzione delle urne sia l’assenteismo elettorale (La stampa 14/5/05); Gaetano Silvestri, pur ritenendo lecito astenersi, ha posto l’attenzione sulla correttezza democratica di un simile comportamento (il manifesto 15/5/05); Paolo Armaroli ha parlato dell’astensione come di un espediente lecito utilizzabile in chiave ostruzionistica (il Giornale 18/5/05); Stefano Ceccanti ha ritenuto una indebita intrusione nelle questioni temporali l’appello a non votare fatto dal cardinale Ruini (il Riformista 5/4/05). E’ importante che su questo tema intervengano anche i giuristi. Ma a patto di non ridurre una questione così complessa a facili semplificazioni. Da un punto di vista costituzionale la legittimità dell’invito a astenersi e dell’astensione deve essere valutata alla stregua di tre profili: con il diritto di voto (art. 48 Cost.), con la disciplina del referendum abrogativo (art. 75 e legge n. 352 del 1970), con la libertà di opinione e la disciplina della propaganda elettorale (art. 21 Cost.).

Astensione e diritto-dovere di votare. L'art. 48 della Costituzione stabilisce che il voto è libero e che il suo esercizio è un “dovere civico”. Secondo alcuni questa norma vale solo per le elezioni e non per i referendum, in ragione di una pretesa superiorità della democrazia rappresentativa sulla democrazia diretta, sicché sarebbe legittimo “non votare”, anzi l’astensione equivarrebbe a un NO detto due volte. Questo argomento tuttavia prova troppo: per la Costituzione, come detto, il voto (qualsiasi voto) è personale, libero e segreto e il suo esercizio costituisce un “dovere civico”. Senza ulteriori precisazioni non sembra difficile ammettere, come fa del resto la Corte costituzionale (sent. n. 96/68), che questi principi valgano per tutte le consultazioni, politiche e referendarie. In teoria generale, anzi, le votazioni elettorali e quelle referendarie costituiscono specie del genere delle deliberazioni collettive.

Vale la pena di ricordare che fin dalla Costituente si chiarì che non vi era contraddizione tra libertà e doverosità nell’esercizio del diritto di voto. Voto libero è quello che si svolge in assenza di coazione, come "libertà oggettiva dell'esercizio del diritto di voto a vantaggio dell'elettore, per modo che gli organi dello Stato siano impegnati ad assicurare questa libertà". Più difficile fu la discussione intorno alla formula del “dovere civico”, che alla fine rappresentò una soluzione di compromesso, tra i fautori e gli avversari dell'obbligatorietà del voto e della sua sanzionabilità. Mentre i partiti moderati, tra cui soprattutto la Democrazia cristiana, erano favorevoli all’introduzione del voto obbligatorio per spingere a votare i ceti medi e conservatori, le forze politiche di sinistra sostenevano la libertà del voto per ragioni esattamente opposte e, quindi, per avvantaggiarsi del consenso delle masse operaie. Il compromesso costituzionale intorno alla formula “dovere civico” venne chiarita da Meuccio Ruini quando, in sede di votazione, riconobbe che la formula prescelta rappresentava “un primo passo”, che rinviava in futuro la scelta definitiva se introdurre anche l’obbligatorietà del voto.

Il dovere giuridico di votare veniva così sanzionato nell'art. 115 del testo unico delle leggi per l'elezione della Camera: per chi si asteneva era prevista la menzione “non ha votato” nel certificato di buona condotta. La norma è stata abrogata nel 1993. Secondo alcuni così il voto da dovere sarebbe diventato una piena libertà. Si tratta però di una semplificazione. Non solo è vero che senza una formale modifica dell’art. 48 Cost. niente autorizza a ritenere abolita, insieme alla sanzione, pure la doverosità del diritto di voto. Piuttosto, con quella modifica si è superato un equivoco ricorrente: ritenere doveroso perché sanzionato solo il voto nelle elezioni e non nei referendum. Votare nelle elezioni e nei referendum, invece, era e resta un dovere costituzionale (Giorgio Lombardi). Solo che si tratta di un dovere privo di qualsiasi sanzione (come una lex minus quam perfecta). Astenersi dal voto è quindi un comportamento lecito. Ma non per questo costituisce esercizio di un diritto costituzionale (come hanno ritenuto alcuni, tra cui Barile-Cheli-Grassi nel manuale di Diritto pubblico). Si tratta di un fatto pienamente lecito certo, ma giuridicamente irrilevante ai fini dell’esercizio del diritto di voto. Concettualmente, infatti, nell’atto del votare non rientra affatto il comportamento di chi si astiene dal voto. Vota infatti solo chi si reca alle urne, e qui le possibilità sono solo tre: votare SI, votare NO, astenersi nel voto (consegnando scheda bianca). Chi non si reca alle urne non vota, né tantomeno vuole esprimere una volontà contraria (o addirittura un “NO rafforzato): il non voto è solo un voto inesistente.

Così si svolgono le votazioni in Parlamento, e il diritto parlamentare non prevede affatto l'uscita dall'aula (l’astensione dal voto) come una forma di decisione. L'assenteismo parlamentare, come quello elettorale, rappresentano semmai forme di ostruzionismo. Si tratta certamente di un comportamenti leciti, ma con ciò non si può dire che chi sia assente sta esercitando una libertà implicita nel diritto di voto. Scambiare queste due situazioni contraddice il principio che assiste le deliberazioni elettorali, secondo il quale la volontà della maggioranza deve formarsi nel collegio, ossia nel procedimento deliberativo e non al di fuori di esso. Assente è colui che ha deciso di non partecipare al processo decisionale. Cosa diversa, ma non per questo meno rilevante, è valutare quando l’astensionismo (anche in funzione ostruzionistica) diventa una pratica aliena, se non addirittura contraria, alla dialettica parlamentare, come nel caso di una minoranza organizzata che con la propria reiterata assenza impedisce alla maggioranza di assumere qualsiasi decisione e al Parlamento di svolgere la sua funzione politica (Manzella).

Contro lo scambio tra astensione dal voto e diritto di voto nella triplice accezione vista è pure la giurisprudenza: ciò si desume chiaramente in alcune recentissime decisioni della Corte costituzionale, sia quando afferma che “in presenza della prescrizione dello stesso art. 48, secondo cui l’esercizio del diritto di voto “è dovere civico”, il non partecipare alla votazione costituisce una forma di esercizio del diritto di voto significante solo sul piano socio-politico” (sent. n. 173 del 2005), sia quando ritiene legittime norme dirette a incentivare la partecipazione elettorale nei referendum come antidoto al dilagare dell’astensionismo elettorale (sent. n. 372 del 2004, sullo statuto della regione Toscana che commisura il quorum non sugli iscritti nelle liste elettorali ma sulla percentuale dei votanti alle ultime elezioni).

Astensione tra quorum e legislazione. Si argomenta, però, che l'astensione sarebbe un diritto perché legittimamente ammessa dalla norma (art. 75 Cost.) sul quorum strutturale nel referendum abrogativo (Bettinelli, Iacometti, Lanchester e altri): la soglia del 50% più uno degli aventi diritto al voto come presupposto della validità del voto referendario si giustificherebbe proprio perché si vuole così ammettere la libertà di non votare. Per smontare questo ragionamento sarebbe sufficiente notare che ove il quorum non ci fosse, come nel caso del referendum costituzionale o di referendum consultivi che non prevedono quorum strutturale (basti pensare al referendum siciliano appena votato sulla soglia di sbarramento del 5%, come ricorda Silvestri su il manifesto) sarebbe per ciò solo illegittima qualsiasi astensione dal voto e, quindi, necessariamente obbligatorio recarsi alle urne. L’assurdità di una simile conclusione dimostra facilmente la debolezza della premessa. Anche in questo caso è utile ritornare al dibattito della Costituente. Nella Costituzione repubblicana il quorum per i soli referendum abrogativi venne stabilito per una ragione diversa e specifica (collegata alla scelta di ammettere il referendum solo a certe condizioni e solo sotto determinate condizioni). Si voleva evitare che una piccola minoranza potesse abrogare una legge votata dalla maggioranza dei cittadini rappresentati in Parlamento. Di fronte a una legge, approvata dalla maggioranza politica, l’abrogazione popolare poteva essere consentita solo se a votare fosse andata una maggioranza uguale e contraria. Il quorum, dunque, non per legittimare l'astensione ma deliberatamente per contrastarla.

Le motivazioni dei Padri costituenti sono state sostanzialmente recepite in sede di discussione e approvazione della legge sui referendum (legge n. 352 del 1970, cfr. l’intervento del Ministro Gava in sede di discussione del progetto). La disciplina legislativa, infatti, non contempla l'astensione, neppure come variante nel voto referendario. Gli artt. 37 e 38 stabiliscono solo gli effetti conseguenti alla vittoria dei SI (l’abrogazione della legge) o dei NO (il divieto di reiterazione dei referendum nei cinque anni successivi). Una conferma è nel fatto che fu respinto un emendamento volto a equiparare il “non voto” al “voto contrario” all’abrogazione.

In questo senso del resto è anche il diritto vivente. In occasione della reiterazione nel 2000 del referendum contro la quota proporzionale della legge elettorale della Camera che l'anno precedente non aveva raggiunto il quorum, la dottrina prevalente (vedi i pareri pro veritate di Barbera, Caianiello, Corasaniti e dello stesso Baldassarre) e, quel che più conta, l'Ufficio centrale per il referendum e la Corte costituzionale hanno ritenuto legittima la riproposizione del quesito, smentendo apertamente l'equiparazione tra “astensione dal voto” e “voto contrario” all'abrogazione (cfr., rispettivamente, ord. 7 dicembre 1999 e sent. n. 33/2000).

L’irrilevanza giuridica dell’astensione dal voto è dimostrata anche dalla disciplina della propaganda referendaria. La legge n. 28 del 2000, infatti, ha stabilito che nella comunicazione radiotelevisiva per i referendum abrogativi gli spazi siano “ripartiti in misura eguale fra i favorevoli e i contrari al quesito referendario” (art. 3, comma 2, lett. d), escludendo qualsiasi valore alla posizione di chi invita a disertare le urne. Proprio in questi giorni, correttamente, l’Authority per le Telecomunicazioni ha previsto che nella campagna elettorale sulla procreazione assistita le posizioni da tenere presenti nella ripartizione degli spazi siano solo quelle dei sostenitori del SI e del NO.

Del tutto fuorviante è poi l’idea che l’astensione costituisce un legittimo espediente nel referendum abrogativo perché così si può contrastare un’iniziativa che, a differenza delle elezioni, non interessa la generalità dei consociati, ma viene sollecitata da una minoranza di cittadini. Anche qui si scambiano i piani. Proprio per evitare che il corpo elettorale venga coinvolto su temi di parte o in contrasto con valori costituzionali è stato previsto il procedimento di controllo delle richieste referendarie. Dopo il via libera dell’Ufficio centrale e della Corte costituzionale, però, la richiesta di referendum abrogativo diviene pienamente legittima, e per questo meritevole di essere sottoposta al giudizio del popolo, il quale attraverso il voto, la partecipazione nel voto, potrà esprimere (secondo le tre possibilità SI, NO, astensione nel voto), la propria volontà nel merito della domanda referendaria.

Astensione e libertà di propaganda. Un discorso in parte diverso merita, inoltre, la valutazione del comportamento di chi fa propaganda per l’astensione. Da parte di alcuni si ritiene che, come qualsiasi forma di propaganda, anche l’invito a disertare le urne, sia pienamente legittimo, rientrando nella più ampia libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21 della Costituzione. Si tratta di una tesi corretta. Del resto l’ampiezza della libertà di pensiero è tale da ricomprendere addirittura la legittimità della propaganda per valori contrari a quelli previsti dalla Carta fondamentale, in conformità all’idea di una democrazia aperta che, a differenza delle democrazie protette, ammette anche idee antisistema. Anche in questo caso è però necessario non fermarsi sulla superficie del fenomeno, ma provare a distinguere. La libertà di manifestazione del pensiero non è, anche nel nostro ordinamento, priva di limiti. Un conto è infatti la libertà delle idee (che possono anche essere eversive dell’ordine costituzionale), un conto le idee che si traducono in azioni destinate a incidere sull’esercizio di diritti costituzionali o addirittura a sovvertire l’ordinamento costituzionale. Un conto è allora la propaganda per l’astensionismo come manifestazione di opinione, altro conto è la propaganda che si risolve in un’azione organizzata volontariamente per coartare il libero convincimento dell’elettore. Del resto, come si è visto, la Costituzione (art. 48) esige che il voto sia libero, ossia privo di costrizioni o di forme di coazione della volontà del cittadino elettore. E la Corte costituzionale è molto rigorosa nel chiedere il rispetto di quel principio, ritenuto un valore fondante dei processi di decisione popolare e delle regole per la propaganda elettorale e referendaria (sentt. nn. 344/1993, 49/1998 e 502/2000). Organizzare la diserzione dalle urne, al limite, può risolversi in una forma surrettizia di controllo sociale della partecipazione al voto, con conseguenze anche sull’effettività del principio di segretezza del voto.

L’invito a disertare le urne, ancorché riconducibile nell’ambito della libertà di propaganda, meriterebbe di essere differentemente apprezzato anche in ragione dei soggetti che lo manifestano. Altro è l’appello al non voto fatto da un comune cittadino, altro l’invito a disertare i seggi svolto da chi è titolare di cariche pubbliche. Con riferimento a questi ultimi non sarebbe così astruso costituzionalmente ipotizzare un dovere di correttezza costituzionale che impone loro di rispettare le regole democratiche e i diritti dei cittadini. La Costituzione del resto prescrive per i partiti e, quindi, anche per i titolari degli organi costituzionali di partecipare alla vita politica con “metodo democratico” (art. 49), così come per i funzionari pubblici è previsto un agire imparziale e responsabile (art. 28). Questo significa che la libertà di opinione, che è parte della libertà dell’agire politico di coloro che hanno responsabilità istituzionali (come il Presidente della Repubblica, i Presidenti delle Camere, il Presidente del Consiglio, i Ministri, ecc.), trova un limite più stringente che non nei confronti del comune cittadino proprio nell’esigenza di rispettare le leggi e le regole della dialettica democratica. Nei referendum sulla procreazione sono gli stessi parlamentari che hanno votato la legge che, invitando a disertare le urne, vogliono sottrarsi al confronto popolare, anziché dimostrare democraticamente di essere in sintonia con la maggioranza degli elettori.

I valori in gioco e il pluralismo democratico. Un ultimo profilo. Vi è chi dice (come alcuni esponenti della Curia) che il 12-13 giugno non si deve votare perché sono in gioco valori – quelli che circondano il concetto di persona umana – universali e perciò non negoziabili. Si tratta di una critica sottile. E’ vero che in un sistema democratico vi sono valori che non ammettono in linea di principio decisioni a maggioranza. Ma il fatto è che nel caso dei referendum sulla procreazione assistita manca proprio quella condivisione generalizzata che costituisce il presupposto per considerare l’embrione una persona umana. Del resto se si trattasse di un valore indiscusso non si capirebbe perché la legge 40 è stata approvata solo da una parte politica e ora, addirittura, disconosciuta da alcuni di coloro che l’avevano votata. In realtà, uno dei principi fondamentali del costituzionalismo liberaldemocratico prescrive che quando sono in gioco valori altamente controversi ciò che il processo decisionale deve veramente assicurare è il rispetto del pluralismo delle opinioni. In simili casi, dunque, il problema non è se sia legittimo o meno decidere a maggioranza, ma garantire che le decisioni siano assunte con il consenso più ampio possibile e, comunque, nel rispetto dei diritti di chi resta in minoranza.

lunedì 6 giugno 2011

Vantaggi e sprechi - Lettere al Corriere della Sera

Vantaggi e sprechi - Lettere al Corriere della Sera
Caro Romano,
quando si parla di Europa si parla poco e male. Sembra che tutto ciò che sia europeo sia uno spreco di soldi e tempo. Certamente l’Europa odierna non rappresenta pienamente quella idealizzata dai padri fondatori ma è indiscussa l’importanza delle sue decisioni. Prendiamo gli Uffici regionali a Bruxelles: in Italia si criticano perché rappresentano uno spreco di risorse, ma all’estero li potenziano e li strutturano in maniera tale da renderli un canale importante per il recepimento di fondi europei o per monitorare le varie direttive. Perché noi italiani non riusciamo a sfruttare totalmente l’opportunità europea e lasciamo che i vantaggi li prendano altri?


Marco Gombacci Bruxelles

Le ragioni sono ormai note. Con i fondi stanziati per le regioni meno sviluppate, la Commissione finanzia i progetti precisi e circostanziati che hanno buone possibilità di essere realizzati. Ma in alcune regioni italiane i progetti devono anzitutto soddisfare molti appetiti locali e non riescono, anche quando vengono presentati entro i termini fissati dalle norme europee, a superare la soglia dell’affidabilità. L’euroscetticismo italiano è doppiamente assurdo: perché ignora i molti vantaggi dell’Unione europea e attribuisce a Bruxelles colpe che sono principalmente italiane.

Soru: �la primavera sarda, ora mandiamo a casa Cappellacci | La Nuova Sardegna

Soru: �la primavera sarda, ora mandiamo a casa Cappellacci | La Nuova Sardegna

domenica 5 giugno 2011

sabato 4 giugno 2011

G8, condannato per la Diaz, diventa questorePromosso l’ex capo della Digos di Genova | Redazione Il Fatto Quotidiano | Il Fatto Quotidiano

G8, condannato per la Diaz, diventa questorePromosso l’ex capo della Digos di Genova | Redazione Il Fatto Quotidiano | Il Fatto Quotidiano
Spartaco Mortola, meglio noto come ex capo della Digos di Genova, condannato in appello a 3 anni e 8 mesi per aver coperto i sanguinosi pestaggi alla scuola Diaz durante il G8 e a 1 anno e 2 mesi per induzione alla falsa testimonianza.
Se la Cassazione confermerà la condanna dell'appello, Spartaco Mortola non potrà ricoprire nessun ruolo pubblico. Per i giudici ha coperto i sanguinosi pestaggi alla scuola Diaz. Il sindacato: "Non riteniamo opportuna questa nomina"

Il nome di Mortola è comparso anche nelle carte dell’inchiesta sui legami scomodi tra l’ex questore di Genova, Oscar Fiorolli e Fouzi Hadj, un imprenditore siriano che un Comitato di esperti nominato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, indica come trafficante d’armi. Mortola sarebbe amico del siriano e un suo parente avrebbe trovato un lavoro in Guinea grazie a lui.

venerdì 3 giugno 2011

Manifesto Sardo > Blog Archive > S’attera die ‘e Sa Sardigna

Manifesto Sardo > Blog Archive > S’attera die ‘e Sa Sardigna

Joan Oliva

Da bambino il palazzo che sorgeva di fronte al Teatro, alla sinistra del nostro, era per me “un po’ in continente”. Non saprei come spiegare questa sensazione, ma, per qualche ragione, mi sembrava che quello fosse più vicino alla penisola italiana del palazzo accanto, dove abitava la mia famiglia.
Non so se fosse perché semplicemente il continente era nella mia infantile immaginazione collocato nel mondo esterno alle mura domestiche, e quindi era qualcosa che iniziava già appena fuori di casa. O forse perché quell’edificio mi sembrava avesse qualcosa di “meno connaturato al luogo”, come un carattere “importato”, perché era stato danneggiato dai bombardamenti e parzialmente ricostruito dopo la guerra. O forse perché alcune persone che ci vivevano erano emigrate in continente, come le figlie di una vedova con la quale eravamo in grande familiarità, che se ne erano andate a lavorare in Piemonte.
La nostra piazza comunque non era il porto. Di forestieri continentali se ne vedevano pochi allora. E raramente. Ricordo però che arrivavano periodicamente le moto-carrozzelle di quelli che raccoglievano le belle chiome delle donne sarde per farne parrucche. Venivano dal cuneese (ma questo l’ho saputo solo dopo molti anni) forse erano proprio i “Pelassiers” di Elva. Erano una famiglia specializzata nella raccolta delle castagne, in Piemonte, e dei capelli, nelle regioni più povere dell’Italia. Apparivano dal carrer de Bonaire (la via Principe Umberto) e si fermavano, nell’angolo opposto al Teatro, proprio sotto il palazzo continentale, con la loro moto-carrozzella colma di oggetti, soprattutto di plastica, proponendo a voce alta, amplificata dalle trombe degli altoparlanti, il loro iniquo scambio: una bacinella “leggera e infrangibile” o più spesso una bambola (di quelle vestite da sposa che finivano per adornare i letti matrimoniali o i divani) in cambio di una lunga treccia di capelli. Le ragazze si lasciavano tagliare i capelli.
Erano molto ingenue e sprovvedute. A volte erano le stesse madri che convincevano le figlie a farsi tagliare i capelli, con la scusa che anche qui era arrivata la moda dei capelli corti. In sostanza, un attributo di bellezza femminile veniva scambiato con un oggetto di scarso valore.
Molti anni dopo mi è venuto in mente che questa storia potesse essere una metafora della svendita e dell’abuso delle zone costiere della Sardegna. L’eccezionale natura dei luoghi tagliata, squartata, lottizzata, separata dal territorio, sottratta alla comunità dei suoi abitanti, per diventare, una volta ridotta a merce, “bene trasferibile”, proprietà altrui, oggetto di vanità, mera cornice, fruita saltuariamente (proprio come una parrucca, o un tupè), per valorizzare, rendere più “carino” (anche nel senso del valore immobiliare) un altro corpo. Vanitosa ghirlanda attorno alle ville progettate per le vacanze dei ricchi, come serto attorno a certi resort per escort. Ma quei cuneesi non sono da considerarsi le avanguardie degli speculatori e devastatori delle coste sarde. Quelli erano solo dei poveracci.
Non so se si fossero arricchiti con quel commercio. Io me li ricordo come dei girovaghi che cercavano di sbarcare il lunario, in maniera stravagante. Il primo forestiero che ho visto proprio entrare nella casa di nostra nonna, che peraltro era una persona piuttosto diffidente, credo fosse proprio uno sinto piemontese. Uno zingaro. Un signore di carnagione scura, barba non fatta, cappello nero a falde larghe, con una gabbietta appesa al collo nella quale c’era un piccolo pappagallo addestrato a tirar fuori da un cassettino, con il suo becco, i colorati “biglietti della fortuna”. Oroscopo e numeri da giocare al lotto. Mia nonna, contravvenendo alla sua solita prudenza, non si perdeva mai l’occasione di questo incontro con la buona sorte. Poi puntava poche lire su quei numeri. Divertita come una bambina ci raccontava che qualche volta aveva anche vinto. Ecco questi sono i miei primi ricordi di quella umanità varia, composta dai “forestieri”, che poi a frotte sempre più numerose e più frequenti, sarebbe comparsa ad Alghero.
Certo da bambino non avevo ancora realizzato che anche la nostra famiglia era un po’ “forestiera”, approdata ad Alghero da appena due generazioni. Proveniente anch’essa dal Piemonte.
Ogni anno, in coincidenza con “sa die ‘e sa Sardigna”, mia madre, figlia di un piemontese emigrato, nata e vissuta in Sardegna, sarda quindi, perché così lei era fiera di essere e si definiva, (e sarda tifosa: la sua squadra del cuore era il Cagliari, non la Juve o il Toro), si chiudeva in una sorta di scontroso mutismo. Se le si chiedeva il perché lei rispondeva che non aveva niente da festeggiare. Risentita rimuginava turbata l’espressione “cacciata dei piemontesi” che sentiva nei notiziari regionali alla televisione e ne soffriva. Quella festa la feriva, dentro. Non amava quelle celebrazioni, con tanto di parodistiche ricostruzioni. Avrebbe preferito festeggiare “sa die ‘e sa Sardigna” il 22 gennaio, giorno di nascita di Antonio Gramsci.
Mia madre era in un certo senso una testimonianza vivente che le identità sono delicate costruzioni che si arricchiscono nel momento dell’incontro, piuttosto che nel momento della contrapposizione, della sopraffazione, della segregazione, della esclusione o dell’espulsione di qualcuno.
Sarda figlia di un piemontese si era sposata con il figlio di una sarda, nato a Genova. Si commuoveva, fino al pianto, ascoltando le notizie delle sofferenze e delle tragedie degli emigrati che attraversano il nostro mare provenendo da altre sponde.